«Ma io
mi sono domato
da solo,
ho camminato
sulla gola
del mio stesso canto.»
[Majakovskij]
“La vita è altrove”, scriveva Rimbaud in una sua lettera. “La vita è altrove”, recita il titolo di questo romanzo, che Milan Kundera ha scritto nel 1973. Il nome che egli aveva originariamente dato al suo libro era l’Età Lirica. «Per me La vita è altrove è il romanzo della rivoluzione europea in quanto tale, condensata», scrisse l’autore stesso.
Un’epica della giovinezza, intesa come Rivoluzione, cioè «atteggiamento lirico», categoria dell’esistenza umana incarnata nella figura del Poeta. In questo caso, l’imberbe Jaromil dal volto femmineo, che accompagnerà col canto gli stravolgimenti politici della Repubblica Cecoslovacca degli anni ’40; egli è animato da un desiderio di libertà, anzi, un’ansia totale di libertà che lo spinge a partecipare con foga agli eventi a lui contemporanei.
Ma questa tensione liberatrice trascende le circostanze storiche della vita di Jaromil e condensa in sé e nel ragazzo tutti i grandi moti di sconvolgimento sociale e culturale che hanno animato i secoli XIX e XX: tant’è che il romanzo non racconta come una scarna monografia soltanto le vicende del giovane ceco, ma vi sovrappone continuamente le figure di Shelley, Byron, Majakovskij, Rimbaud, che corrono insieme a Jaromil, corrono alla ricerca della vita che «è sempre dove loro non sono», la inseguono «balzando di rivolta in rivolta» e inseguendola fuggono da tutto ciò che si lasciano dietro, un “tutto” stigmatizzato dalla figura archetipica della Madre di Jaromil – ossessiva, possessiva, morbosamente presente nella vita e nella crescita del figlio – come lo era stata a suo tempo la madre di Rimbaud, come lo fu lo spettro della madre del poeta Gerard de Nerval, come lo è il grembo materno per tutti i fuggitivi.
Ecco reso visibile il gioco di Kundera: intrecciando tutti i momenti storici dell’ultimo secolo tra di loro, attraverso le figure dei poeti e le scosse delle rivolte, ne ha estratto, sublimata, l’essenza dello spirito della giovinezza, la sua forza storica distruttrice e rigeneratrice.
Ma il nostro scrittore ceco non vuole certo dipingere un ritratto imbellettato e indorato dell’Età Lirica – costei si fa beffe di chi la idealizza, e non prova pietà per i vecchi che la venerano –, anzi mette in scena la sua fondamentale parte nel dramma esistenziale; Jaromil è un mostro, lo afferma Kundera stesso. Senza che se ne renda conto, «il poeta regna insieme al carnefice»: divenuto di poeta di regime, scrivendo versi involontariamente demenziali sulla costruzione di centrali elettriche e macchinari agricoli, assorbito da un coinvolgente idealismo comunista e inebriato dal successo ottenuto come poeta, Jaromil perde ancora di più il contatto con la realtà, riveste di lirismo un apparato meccanico che commette atrocità.
La realtà divora e banalizza, spazza via il Poeta, e tramuta il suo canto da brama di assoluto a slogan asettico, senza peraltro che egli se ne renda conto.
L’unico personaggio che non viene ingurgitato dal meccanismo impietoso della realtà è Xaver, alter ego di Jaromil – questo, però, sol perché Xaver è la perfetta, totale e impossibile libertà: egli è infatti senza genitori – non orfano, ma privo di radici. Solo Xaver riesce davvero a non aver peso nella sua corsa, di sogno in sogno, senza mai fermarsi – lui che non deve ringraziare nessuno per essere al mondo: ai giovani infervorati che corrono – e corrono con foga, corrono senza posa – fanno peso le radici, e il corpo e la madre immensa; una madre che li insegue da dentro, dalle viscere che lei stessa ha generato, finché il suo freddo abbraccio non diviene quello della morte, pronta, non appena i poeti non ce la fanno più a proseguire.
Jaromil – e «l’atteggiamento lirico» – è una fiamma che tutto arde, tutto brucia: “rende luce ciò che tocca e carbone quel che lascia”, direbbe Nietzsche; e allo stesso tempo è come ignaro del suo vigore, si sente chiuso in una casa di specchi, disprezza la propria solitudine e disperato va cercando questo vigore nella folla, negli altri, verso il mondo, quel mondo lontano di cui giungono solo gli echi di cannoni rivoluzionari, e che i poeti sanno esser la prova ultima della loro natura, il loro vero posto.
Del resto, persino lo spazio stesso del romanzo è animato solo attraverso lo spirito terribilmente solo del protagonista: lui, Xaver, Shelley, Rimbaud, Majakovskij sono gli unici personaggi ad avere un nome proprio; al resto tocca un titolo che toglie loro il volto, li rende incidentali, a prescindere dal ruolo che hanno nella storia – la madre, l’artista, il quarantenne, la commessa –; sono illuminati dal bagliore di quegli altri nomi “veri” come oggetti in una stanza buia.
Questo non intralcia però la molteplicità di voci nella storia: Kundera infatti riporta molti punti di vista da cui osservare la vita di Jaromil, a cominciare dalla madre che fa da preludio e passando per altri personaggi che di tanto in tanto forniscono una visione “esterna” del Poeta – non abbandonando mai però il suo ruolo di narratore e giudice ultimo, di arbiter elegantiae indiscutibile –; e forse è questa la grande dote di questo scrittore.
Non annoia mai: con una parlata sibillina di chi sa molto più di quel che dice, egli solleva il lettore dal mondo dei personaggi e lo trasforma in spettatore etereo; ne è visibile prova lo stile coinvolgente della suddivisione dei capitoli: essi non hanno lunghezza fissa, alcuni coprono appena tre pagine, altri si dilungano su altre dieci, certi sono composti da una sola parentesi di qualche riga. Milan Kundera è il primo a non prendere sul serio la sua narrazione, e la dispiega non nascondendo per niente il suo diletto, evidenziando questo o quel fatto a proprio capriccio, passando da un dettaglio all’altro, rimandando e anticipando con grazia e finezza. Il piacere di leggere e addentrarsi nella storia così si rigenera e si riaccende ad ogni pagina, ravvivato da nuovi spunti e mai fermo troppo a lungo su qualcosa.
Non sarà sfuggito che Telemachia si è impossessata del titolo di quest’opera – che a sua volta l’ha rubato a Rimbaud –; ci è parso che questa celebre frase racchiudesse in sé meglio di tante altre il significato ed il cuore dell’«Età Lirica», della giovinezza e della Rivoluzione: il desiderio inestinguibile di infinito, di verità, di bellezza – volti molteplici, forse, di un solo dio – che sfugge, che incita alla ricerca e soprattutto alla fuga; citare “La vita è altrove” è invero citare l’emblema, lo stemma di una categoria dello spirito, dell’esistenza umana, che tende irrimediabilmente all’Altrove, a questo Xaver, unica effettiva libertà irraggiungibile, che tanto può infiammare e muovere l’animo così come rivelarsi soffocante e schiacciante nel suo esoso domandare.
Così viene soffocato Jaromil, che si sente oppresso da quello che lui stesso ha creato, dalla madre, dalla fidanzata, da un mondo che vorrebbe tutti allo stesso livello.
Proprio quando pensiamo di aver raggiunto l’Altrove, infatti, esso ci tradisce, e ci lascia intendere che abbiamo sbagliato, che è ancora lontano, da tutt’altra parte di dove l’avevamo cercato. Proprio quando il poeta lascia la sua casa di specchi per raggiungere il mondo in subbuglio, l’origine degli echi dei cannoni e degli spari, si rende conto che non sa sparare, o se ci riesce, sa centrare solo la sua testa.
Marcus Artis Maldeviolano