Le nostre vite sono piene d’attesa. Si aspetta nei supermercati,negli ospedali,nelle biblioteche,ai distributori di merendine, per fare una fotocopia o per entrare in bagno. Si aspetta da soli o in compagnia, certe volte addirittura in massa. Si aspetta con qualunque clima, infreddoliti sotto l’acqua battente o sudati nelle giornate roventi. E si aspetta ovunque con chiunque e in qualunque tempo, da sempre. Attese sempre diverse e sempre uguali. Com’è l’attesa? Lunga e noiosa ma anche breve, e famelica nel suo inghiottire grandi quantità di tempo impedendoci di viverle. Secondo qualcuno l’attesa avrebbe lo stesso colore del buio. Può essere monotona ma anche trepidante, carica di eccitazione e significati. Come è reso in maniera stupefacente dalla passionale “I’m on Fire” di Bruce Springsteen. Una delle canzoni più famose e intense del disco “Born in U.S.A.” Un pezzo se vogliamo semplicissimo e fatto di niente se non dell’interpretazione del cantante, che con la sua voce ruvida e roca riesce a trasformarlo in un brano dotato di una tensione rara e potente, in cui l’intensità sessule è palpabile. Nel testo il protagonista parla di un desiderio ardente, si sente “in fiamme” e prende consapevolezza di quell’attesa. Di quel desiderio di lei,ormai sua ossessione inquieta e crescente, che si fa tanto più pressante quanto più si prolunga l’attesa.
“…Sometimes it’s like….someone took a knife baby…..edgy and dull and cut a six-inch valley…through the middle of my soul…”
“… a freight train running…through the middle of my head…only you, you cool my desire….”
“…I’m on fire, I’m on fire…”
Un brano irresistibile che nonostante il passare del tempo non ha perso la carica e la potenza di un rock viscerale e sincero. Ma l’attesa in musica non ha solo suoni febbrili, anche malinconici e stanchi. Ne abbiamo un valido esempio tornando in dietro nel tempo dal 1985 al 1967 ecco “Blue Jay Way” dei Beatles, cantata da un George Harrison che sembra,appunto, stanco di aspettare…
“…Please don’t be long ….Please don’t you be very long …Please don’t be long …Or I may be asleep…” La canzone nasce da una vacanza a Los Angeles e da un ritardo causato anche dalla nebbia di quel giorno. Mentre aspettava , Harrison improvvisò su un organo il brano,ispirandosi alla situazione.
“There’s a fog upon L.A….And my friends have lost their way…”
Non è un mistero che alla maggior parte delle persone non piaccia aspettare, magari alcune pensano che a volte sia stimolante e altre necessario ma nessuno trova piacevoli le attese troppo lunghe. Dopo un po’ stancano e scocciano.Quindi perché non sbarazzarcene? Oggi,tutta la tecnologia moderna è votata a farci risparmiare più tempo possibile. Beh,quel tempo era chiamato “attesa”,ed era attraverso essa che imparavamo a essere pazienti, in quei momenti erano racchiuse molte cose,cose come il dubbio,l’ansia e la paura, ma anche l’aspettativa, l’entusiasmo e la felicità. Molti hanno perso contatto con tutto questo,ed è sbagliato. Qualche volta ,mentre aspettiamo un pacco da amazon,o la schermata di caricamento di un videogioco, o una telefonata importante, assaporiamo quei momenti. E ricordiamoci di quando erano più lunghi. Certo ci sono alcuni casi in cui bisogna buttarsi,lanciarsi e agire senza indugio, e forse le persone non sono fatte per aspettare, ma anche
l’attesa ha un valore e non è mai statica, può spingerci a bruciare menzogne e illusioni ,
A riflettere, a rimboccarsi le maniche e sentirsi protagonisti della propria vita, non spettatori passivi della scena. Perché la vita è nostra e a volte sembriamo scordarcene. Quasi non ci rendiamo conto di quante cose possono nascere in noi durante un’attesa.
Aspettare può portarci a sviluppare delle critiche costruttive nei confronti di una società fertile di ingiustizie, e ridondante nella sua solitudine. Attendere può farci capire chi siamo. Se anche tutto si riducesse ad una riappropriazione di identità comunque rimarrebbe un gran passo avanti.
In certi casi serve trovare la speranza dei coraggiosi o dei pazzi per continuare ad aspettare .
Come una sorta di Cappellaio Matto , che per salvare il Paese delle Meraviglie deve aspettare il ritorno di Alice. Tutti lo fanno, si fermano e attendono, aspettano che quel Cappellaio interiore ritrovato , complice del lato più ardito di noi stessi , istilli in noi un desiderio di follia e una voglia di tenere vivo il rapporto con la nostra fantasia ed i nostri sogni, magari facendoci scoprire di avere quell’anima di ferro di chi non li ha mai accantonati e non vede l’ora di realizzarli.
Allora forse avremo l’audacia necessaria , anche di aspettare Alice . Poi però ,
ripensando alla sua storia credo che neppure l’ambiguo Cappellaio Matto riesca a non sentirsi sperduto di fronte al suo piccolo ed irreale mondo che crolla.
Anche aspettare è una scelta, malgrado talvolta non ci sia alternativa. Noi aspettiamo come il Cappellaio.
Aspettiamo il Cappellaio.
Rimaniamo ad aspettare.